Il breve e cogente testo di Lévinas, [1] secondo Giorgio Agamben «l’unico tentativo riuscito della filosofia del Novecento di fare i conti con l’evento politico decisivo del secolo: il nazismo».
Lévinas rimarca la dirompente, elementare novità dell’hitlerismo rispetto alla tradizione filosofica e politica occidentale. Se la concettualità giudaico-cristiana e liberale ha im-posto le vie di liberazione spirituale dalle costrizioni sensibili e dai condizionamenti storico-sociali la filosofia hitleriana accetterebbe, senza riserve, la unitarietà e inscindibilità di spirito e corpo. L’hitlerismo con il marxismo e con l’esistenzialismo heideggeriano condividerebbe sì fatta intensità d’immanenza quella filosofia heideggeriana, cioè, cruciale proprio per la formazione dell’esperienza filosofica di Lévinas stesso.
Dalla
fatticità [“effettività” nella traduzione di Chiodi; quindi Volpi come Ardovino] heideggeriana, all’essere-inchiodato levinasiano a quella nuova, nazista concezione della corporeità, che si situerebbe nelle prossimità della gettatezza heideggeriana: l’essenza dell’uomo sarebbe un esser-ci integralmente risolto, fattiziamente esposto nei suoi modi di essere: una esistenza senza alcuna essenza.
Data la crisi come decadenza di valori e smarrimento delle tradizionali direzioni di senso storico-esistenziali seguiti alla prima guerra storiograficamente riconosciuta come mondiale, l’hitlerismo avrebbe imposto la vita biologica come valore: l’essere-inchiodato dello spirito e dei valori esclusivamente al proprio (del proprio) corpo
Blut e
Boden ossimoricamente ridotti a valori, ossia voluti (come nell’heideggeriano «Discorso di Rettorato»: quanto dovrebbe meramente, ch’è dire fattiziamente, esporsi come oltrepassamento di una tradizionale opposizione antropologico-metafisica, invece vale come oggetto disponibile alla volontà di un soggetto...).
Per Lévinas, via il nazismo, si rivelerebbe la possibilità ontologica che insidia l’umanità, ossia l’emersione del male «elementale»: lo scatenamento del sentire, di una primordialità non più dialettizabile come
Kultur alla
Civilisation, una istintualità che solo l’aggettivazione che il linguaggio è come dire-su-altro, può ulteriormente qualificare (come) bestiale. Il male totalitario, non un dato storico contingente, ma possibilità insita nell’essere più proprio dell’uomo storico, e di ogni tempo.
L’hitlerismo, come risveglio dei sentimenti elementari dell’uomo, sarebbe una filosofia una filosofia tale da far collassare i principi stessi di una civiltà: della tradizione filosofica e politica occidentale. Ecco che, in linea con una certa intensità heideggeriana di filosofia della storia, la filosofia dell’hitlerismo, destinalmente, istorialmente, trascenderebbe la filosofia degli hitleriani.
Per Lévinas la libertà è un concetto, diremmo una cattura appunto libera e, insieme, paradossalmente liberante nozione che «per la civiltà europea consiste in una particolare concezione del destino umano». Destino che risulta un continuum eventico, quindi condizionato da e in un passato incancellabile. La verità della libertà esige, bensì, un presente non influenzato dalla compiutezza preterita, e anteriore.
Il cristianesimo è situazione di salvezza, offrendo all’anima il potere di «liberarsi da ciò che è stato, da tutto ciò che l’ha coinvolta, da tutto ciò che l’ha impegnata per ritrovare la sua verginità». Quella cristiana sarebbe una libertà proclamata, pienamente prospettata come possibile e però come tale solo dichiarata, ossia necessitata.
Entro il liberalismo, in cui domina la filosofia idealista, l’uomo non si sottopone più al volere del suo destino, ma si affida alla logica che la ragione è.
La novità del marxismo consisterebbe nel non più apparire, dello spirito, come pura libertà, essendo piuttosto inchiodato ai e dai bisogni materiali.
È l’essere a determinare la coscienza il marxismo si opporrebbe tanto al cristianesimo, quanto a ogni liberalismo idealista per il quale la coscienza (ragione) determinerebbe l’essere.
«L’essere determina la coscienza», ossia l’uomo è un essere inchiodato.
Cos’è il corpo?
L’ostacolo che vincola l’uomo alle e nelle condizioni terrene, così spezzando la libertà slanciata dello spirito e a partire dallo spirito stesso. Il corpo cristiano, la concettualizzazione liberale del corpo: questo corpo sarebbe qualcosa di estraneo all’uomo, per quanto è legato allo spirito attraverso il sentimento di identità. Identità che può porre il corpo in quanto che lo spirito, non altrimenti che attraversandolo, e esso stesso circolando, lo consuma nel suo stesso perdersi.
Se il corpo riceve tanta centralità, se dal corpo si pretende tale crucialità, allora una nuova concezione dell’uomo, una umanità nuova s’istituisce: il corpo biologico riduce lo spirito a una mera accezione di quello.
«L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento.»
Essere liberi, ossia prendere coscienza e accettare questo incatenamento l’autentico come afferramento di non altro, che dell’inautentico... Ossia, tra l’altro, il puntello dell’agambeniana strategia di salvare l’etica di Heidegger dal suo ridursi a opzione morale, a valore, a investimento solo intellettuale.
Per Lévinas, ogni struttura sociale che non risulta fondata su questa base che il corpo (anche) è, appare falsificata come menzognera. La razza biologica prende tale centralità, che la società deve comporsi di un gruppo di individui aventi radici comuni e, sovra tutto, il medesimo sangue. La razza, il corpo biologico: incatenamento indissolubile. E a ciò si accompagna un piano non contingente di espansione: guerra e conquista diventano ideali universalizzati perché appropriabili a chi espone quanto a chi assume, e per garantire, anzi, proprio così garantendo, la sopravvivenza o, meglio, il sostenersi del proprio, della propria razza a discapito dell’improprio, delle altre razze: dell’altro come razza, entro la razza.
«Questa espansione costituisce l’unità di un mondo di padroni(/maestri) e di schiavi».
Questo, un sommario compendio del testo di Lévinas da cui Agamben prende le mosse per tentare quello che Derrida, nei suoi terminali Seminari su Bestia e Sovrano, liquida alquanto gratuitamente, forse superficialmente, ossia il situare la relazione fra Heidegger e il nazismo nella prospettiva della biopolitica moderna che «tanto gli accusatori che gli apologeti [di Heidegger] hanno omesso di fare».
Ma, che cosa vuol dire situare in una tale prospettiva il così detto ‘caso Heidegger’?
In una battuta, e in un tono anche ridondante: significa accettare finalmente la inservibilità di quella che è forse la postura filosofica più specificamente novecentesca, e in senso radicale fenomenologica — la liquidazione della contingenza, in vista della fatticità(/effettività), e della presupposizione, in vista della esposizione.
Saremmo, con il pensiero di Heidegger, di fronte a una filosofia che da se stessa arretra rispetto a quanto essa stessa dischiude — una filosofia, cioè, impigliata, o semplicemente gettata, nella sua possibilità — possibilità di cui proprio essa è negazione, ossia mero (!) toglimento. Heidegger, cioè, si situerebbe istorialmente alethicamente: in una storicità come velarsi del destinante nelle epocali destinazioni, proprio in forza della localizzazione di una uscita dalla motilità, dalla cino-kenomaticità (cfr.
Beiträge e
Tempo e essere).
Quando dice il nazismo come incontro tra la tecnica planetariamente determinata e l’uomo moderno, Heidegger non solo sta pensando
Gestell come preludio di
Ereignis, ripercuotendo la storicità analogicamente, ma inoltre sta alienando quanto sarebbe piuttosto calzante proprio per la sua filosofia: perché, la tecnica, planetariamente determinata, nominando la posizione kenomatica del
Bestand, uomo moderno sta per pleromaticità e oggettità se la hegelianeria di Heidegger sta proprio in questo suo far retroagire i risultati, il negativo gli resta, però, come resto che resta… Donde può, nei
Beiträge, fare del sistema hegeliano il coniugarsi supremo di macchinazione e esperienza vissuta.
Al cuore teoretico e retorico (teoresi e retorica da pensarsi anche nella loro effettività fattizia) del «Discorso di Rettorato» può addebitarsi il medesimo limite che, poi, motiverà la presa di distanza di Heidegger dal nazismo: la fatticità, ossia la indecidibilità di storia e natura, è compresa, contingentemente volontaristicamente, come fatto… quasi entro una specie di positivismo vitalisticamente corretto. La fatticità fa segno, cioè, all’abolizione di differenza e trascendimento: fattiziamente, nazisticamente, biopoliticamente non resterebbe alcun resto nudo e vitale così radicalizzandosi, ossia compiendosi normalizzandosi, lo stato di eccezione.
Se Nancy può sostenere che sotto i totalitarismi la storia ripara presso i marxismi, è perché heideggerianamente, nazisticamente, biopoliticamente il Politico sarebbe senza presupposti.
Eppure, avverte Agamben, nazismo e pensiero heideggeriano divergerebbero proprio sulla base di quel presupposto che sarebbe non altro che l’esaurirsi, il compiersi presuppositivo: il presupposto, cioè, disporrebbe alla storicità come appropriazione proprio sulla base della sua vacanza come del suo annientamento cosa vuol dire questo? Anzi, a cosa può far segno?
Certo, il nazismo e Heidegger divergono sulla base della più o meno svuotata consistenza del presupposto della decisione, del Politico; ma insieme sarebbe da pensare la necessità della vacanza del presupposto sulla base del suo annientamento. Ora, se è la vita nuda a fondare la polis, ossia un presupposto compientesi proprio come tale, come fondo di appropriazione: se è una possibilità, neppure come tale obbiettivata, ad aprirsi su una negazione, su un annientamento esigente la sua stessa vacanza, cioè di perdersi come indimenticabile… Allora, certo che la logica storica cui ci teniamo, è ancora heideggeriana. Ma non bisogna trascurare come ciò implichi la tensione a una dimora ancora hegelianamente arredabile: una dimora che sappia pure fingere, e proprio pa(te)ticamente, di non essere screziata da alcun tremito.
* Il presente testo è già apparso in Kasparhauser, 29 giugno 2012.
1- Emmanuel Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dellhitlerismo, trad. it. di A. Cavalletti, introduzione di G. Agamben, con un saggio di M. Abensour, Quodlibet, Macerata 1996.
Martin Heidegger